Emofilia, quando l’ago fa ancora paura. Ecco come i nuovi farmaci possono migliorare la vita dei pazienti

Più di un terzo dei pazienti potrebbe avere una vita migliore con una maggiore aderenza alla profilassi, ma l’ago fa ancora paura.
Lo conferma uno studio inglese, secondo il quale nel 36% dei casi l’aderenza terapeutica dei pazienti emofilici è moderata o scarsa. I motivi più frequenti sono l’avversione per le infusioni e la mancata comprensione del regime di trattamento.

Per “aderenza terapeutica” si intende il conformarsi del paziente alle raccomandazioni del medico riguardo ai tempi, alle dosi e alla frequenza nell’assunzione del farmaco per l’intero ciclo di terapia (clicca qui per saperne di più).
Il pilastro del moderno trattamento dell’emofilia è la terapia profilattica, la quale prevede che ai pazienti vengono somministrate regolari infusioni di fattore per mantenerne un livello adeguato e prevenire gli episodi di sanguinamento. Le iniezioni ripetute sono gravose per i pazienti: è questo uno dei principali motivi di un’aderenza non ottimale, un fatto che probabilmente porta a esiti clinici più scarsi.

Per il momento  per l’emofilia non esiste una cura risolutiva, ma le nuove terapie ad emivita prolungata possono migliorare significativamente la vita dei pazienti. La dr.ssa Cristina Santoro, medico dell’Ematologia (Dipartimento di Biotecnologie Cellulari ed Ematologia) del Policlinico Umberto I – Sapienza Università di Roma, ha spiegato ai microfoni dell’Osservatorio Malattie Rare in cosa consistono queste innovative terapie.

Queste terapie innovative sono in grado di ridurre i sanguinamenti e l’artropatia correlata, con un numero di infusioni inferiore rispetto ai farmaci tradizionali – spiega Santoro – Ciò ha un enorme impatto sulla qualità di vita dei pazienti: la riduzione delle infusioni è più evidente per i concentrati a lunga emivita di fattore IX, che permettono di passare da due a una sola infusione settimanale per i bambini, e addirittura a una ogni due settimane per gli adulti, ma anche con i concentrati di fattore VIII è possibile scendere da tre a due infusioni la settimana”.

Le ripetute iniezioni endovenose, infatti, non sono piacevoli e possono causare fastidio o dolore. “Nel bambino è veramente impegnativo eseguire l’infusione endovenosa 3 volte a settimana o a giorni alterni, ma anche nell’adulto ci possono essere difficoltà. Il patrimonio venoso può subire danni, fino a rendere difficile trovare un accesso vascolare. Si tratta di un problema sia fisico che psicologico: il dolore e la paura dell’ago possono portare a una scarsa aderenza alla terapia”, prosegue l’ematologa. “Per questo motivo, i nuovi farmaci a emivita prolungata possono sicuramente favorire un aumento della compliance, motivando maggiormente il paziente a fare la profilassi”.

Inoltre dagli studi registrativi dei nuovi prodotti, e dai primi dati della “real life”, emerge un altro aspetto positivo di questi prodotti: nel passaggio dalle precedenti terapie ai nuovi farmaci non si sono verificati casi di sviluppo di inibitori. Un dato confortante, perché gli inibitori rappresentano una delle sfide ancora aperte nella terapia dell’emofilia: questi anticorpi infatti, prodotti dal sistema immunitario del paziente emofilico, reagiscono in modo sfavorevole al trattamento e sono in grado di limitare o annullare l’efficacia del FVIII o del FIX infuso.

“Gli inibitori hanno un impatto negativo per il paziente, che presenta una sintomatologia emorragica più grave e meno controllabile con i farmaci a disposizione. Sono pazienti molto complicati, che non possono fare la profilassi se non con i cosiddetti agenti bypassanti, non ugualmente efficaci rispetto alla terapia preventiva con il concentrato del fattore carente”, sottolinea la dr.ssa Santoro. “Il trattamento dei pazienti con inibitore è inoltre molto costoso: infatti l’utilizzo degli agenti bypassanti per trattare o prevenire gli episodi emorragici, e la terapia di induzione dell’immunotolleranza, al fine di eradicare l’inibitore, hanno un peso importante anche sul piano economico; dunque, l’impatto degli inibitori è particolarmente gravoso”.

A maggior ragione dunque, alla luce di queste considerazioni, i dati presentati sui nuovi farmaci a emivita prolungata rappresentano una conferma importante per i clinici e i pazienti. Sapere infatti che il passaggio di terapia non comporta rischi riguardo lo sviluppo di inibitori può essere un elemento decisivo nella scelta terapeutica più adatta ad ogni singolo paziente.